Daniel Varujan


(Segnalazione di Silvia)

"Il carro dei cadaveri"

Verso sera per le strade deserte
passa un carro cigolando.
Un cavallo sauro lo tira, dietro
cammina un soldato ubriaco.

E’ la bara dei massacrati, che va
al cimitero degli Armeni.
Il sole al tramonto distende
sul carro una sindone d’oro.

Il cavallo è magro: trascina a stento
il raccolto dei suoi padroni crudeli.
Con le orecchie pendenti, sembra
riflettere intensamente a quanti

secoli servono per arrivare all’ultimo
fienile dei santi mietuti…
E sui muri intorno la sua coda pendente
spruzza sempre, sempre sangue.

E ancora sangue continua a sgorgare
dai cerchi delle ruote,
come se il carro trasportasse rose, come se fosse
dell’aurora il carro di fuoco.

Sono uno sull’altro i cadaveri, il figlio
nei riccioli della madre avvolto.
Uno ha ficcato l’intero pugno
nella calda ferita aperta dell’altro.

E un vecchio con la mandibola in frantumi
fissa gli occhi nel cielo,
dove una maledizione e una preghiera
si mescolano alla nera vendetta.

L’intestino uscito fuori di un altro
penzola giù dal carro:
un cane da dietro l’afferra
e si dedica a divorarlo.

Non hanno più forma né testa: portano
ferite di mille armi.
Il loro corpo è già fratello alla terra:
ecco, vanno al cimitero.

Su di loro nessuno viene a piangere
o a dare l’estremo saluto:
nel silenzio della città solo l’odore del sangue
va attorno con lo zefiro.

Ma nel buio di finestra in finestra
ecco, candele si accendono:
sono le nonne che pregano di nascosto
sulla bara rossa.

E allora su un balcone
esce bella una vergine,
e piangendo lancia un pugno di rose
sul carro che passa.


***


"La culla degli Armeni"


E’ costruita con il cipresso.
e con il sangue colorata:
vicino le gridano i gufi:
la dondola la tempesta inferocita.

Dalla volta pendono
perle, perle di turchese: -
sono le lacrime del cielo,
cadute, ghiacciate dal freddo.

Nell’umidità, nel fumo oscuro,
di cui la capanna è piena,
si dondola piano la culla antica,
come l’antica vendetta della mia anima.

E’ l’abisso dove l’armeno
partorisce i suoi draghi ribelli,
dove i baci, le rose rossastre
emanano odore di sangue.

Nessun delicato seno materno
vi apre il suo cielo:
là diventano madre le tenebre,
e i fulmini mammelle.

E in mezzo ai vagiti, al pianto
il ragazzo pallido cresce
tra le braccia dell’amico, del caso
cresce.

E forse domani egli sarà
un guerriero dagli occhi di fuoco, nuvola fulminante:
-A noi la mangiatoia dà un Gesù,
invece la culla armena un Insorto…


***


"Il pianto di Dio"


Quando nello spazio non si era ritirato
ancora il Nulla di questo Universo,
io credo che Dio cercasse qualcosa,
come rimedio alla ferita della noia.

In un istante girò intorno allo spazio,
e non trovò nulla tranne se stesso:
volle un’Essenza della sua Essenza: -
e la sua Essenza fu la sua eco.

Poi ritornando, triste e addolorato,
dal sordo Silenzio e dal cieco Nulla,
anche da loro volle qualcosa, ed essi
diedero se stessi, cioè non diedero nulla.

Quando Egli trovò l’Immensità così vuota,
provò un profondo, crudele dolore:
e sul Silenzio e sul Nulla
pianse dal cuore la sua disperazione.

Cadendo, le sue lacrime lo esaudirono,
formando ogni stella nel cielo: -
e come al Poeta anche a Dio,
per creare, fu necessario piangere.


***      


"I contadini"


Sono i contadini del mio villaggio, figli vigorosi della campagna,
con sudori di perla hanno intrecciato la corona della natura.
Il cuore della terra palpita nel loro petto villoso;
le loro larghe vene traboccano di sole.

Sotto il loro passo freme l’utero della madre terra;
ma neppure un germoglio calpestano i loro talloni pesanti.
La testa che piegano davanti all’altare santo,
è sempre incoronata di polveri di paglia dorata.

Gioia seminano nei solchi, e Dio
dal solco della loro fronte miete i frutti.
Soli hanno sentito il fluido canto delle linfe.

Che importa se la saliva del bue unge le loro mani,
e l’odore della stalla impregna il loro mantello variopinto –
è nelle loro grandi palme che il seme germina intero.


***


"Granai"

Nella casa oscura, sotto il tetto paterno,
fila dopo fila i granai sono rigonfi del nuovo raccolto.
Dal loro ampio ventre giungono gli intensi profumi
di autunni pieni di frutta e di campi falciati.

Là c’è la bruna lenticchia, là l’orzo affusolato;
là il grano, spremuto dal solco e scorrendo giù dalla montagna,
ha formato un torrente. Racchiudendo l’oro e il sole,
essi sembrano aurore velate di nuvole.

Fra le travi affumicate e le pareti solitarie
il ragno ha disteso le sue vesti polverose.
Dall’alto talvolta scende una lama di luce
che a lungo ha esitato intorno all’abbaino assolato.

Racchiusi nel loro seno i tesori della terra,
sembrano irridere in silenzio all’inverno e alla carestia del domani…
Vigile davanti a loro, rannicchiato nella sua coda pelosa,
il gatto della casa sorveglia, simile a un dio.